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mercoledì 5 ottobre 2011

Artemisia Lomi Gentileschi, storia di una passione

"Quando si scrive delle donne, bisogna intingere la penna nell'arcobaleno" - Denis Diderot.

Sono rari i casi di donne divenute famose nel campo artistico, soprattutto nel periodo classico e moderno. Le donne sono sempre state relegate a svolgere mansioni di second’ordine da condizionamenti di natura culturale e sociale. Spesso sono state costrette a mortificare la propria personalità artistica scrivendo sotto falso nome; facendo firmare i quadri da altri; comunque sempre relegate nell'anonimato. Artemisia Gentileschi fu sicuramente una delle poche protagoniste femminili della storia dell’arte europea. Figlia di Orazio Gentileschi (1563-1639), conosciuto artista pisano dagli iniziali stilemi tardo-manieristi, trapiantato a Roma dal 1585, ove sarà poi chiamato per collaborare come aiuto nei lavori della Biblioteca Sistina in Vaticano, quindi amico e seguace di Caravaggio (nonostante fosse di un decennio più anziano) al tempo della sua mirabolante esperienza nella città pontificia (conclusasi nel 1606 con la fuga errabonda dopo la lite omicida col Tomassoni), la figura artemisiana appare particolarmente proclive alla trasposizione di vicende private nell'effettualità della propria vita artistica, ma anche all'operato abuso in sede storiografica, che ne ha spesso cancellato le reali qualità propositive. Il quadro delle sue vicissitudini giovanili testimonia di un retroterra psicologico deciso ma non facilmente padroneggiabile, proteso da un lato a recepire positivamente gli stimoli offerti da discussioni e frequentazioni canalizzate dall'attività paterna, che favoriranno una precocità di approccio e un versatile affinamento della tecnica pittorica, ma aperto dall'altro su scenari affettivi poco rassicuranti, inerenti  
alla questione dei difficili rapporti con Orazio, chiuso col suo irascibile temperamento nell'incapacità d'espansione comunicativa e oltretutto distrattamente assente dalle responsabilità gestionali della conduzione familiare, difatti affidate ad Artemisia per la custodia dei fratelli, e alle cure educative di un vicinato equivocamente immerso nel clima postribolare di quella Roma popolana, in cui nepotismi e intrighi politici di basso profilo attornianti la corte pontificia costituivano sfondo agli intrecci coi traffici delle committenze che un ceto artistico nomadico e bohémien, animato più da un'indirimibile ansia di promozione economica che di prestigio intellettuale, si contendeva secondo una spietata lotta concorrenziale. Nella prosaicità "epicurea" di questa rarefatta atmosfera avventuristica, matura la dolorosa e prolungata esperienza di stupro, subita dall'artista per opera del collega e amico paterno Agostino Tassi (1580-1644), già suo insegnante di prospettiva e personaggio fin troppo scopertamente compromesso con una visione fallocentrica ed erotomane, adusa alla funzionalità oggettivata e sessualmente strumentale del corpo femminile (risultando già precedentemente coinvolto in numerosi processi per stupro, atti di libidine violenta e incestuosa, ecc.). L'iter probatorio culminò nella drammatica tortura dei "sibilli" (cordicelle strette attorno alle dita), inflitta dagli inquisitori ad Artemisia per acclarare, secondo la significativa mentalità giurisprudenziale coeva, l'accertamento della verità. Alla fine del processo Tassi scontò otto mesi nella prigione di Corte Savella ma alla fine il caso fu archiviato.
L'influsso della corrente naturalistica in voga all'epoca nella città partenopea si fa prepotentemente presente nelle opere del periodo (Giuditta e la fantesca, Betsabea al bagno, Nascita del Battista e Storie di San Gennaro). Tra il 1639 e il 1641 si reca in Inghilterra per assistere il padre anziano e malato, fino alla morte di questi, lavorando a più riprese per la corte e l'aristocrazia. 
Giuditta che decapita Oloferne. Probabilmente ispirato dal suo stato d’animo durante il processo esso rappresenta una delle scene più cruente della Bibbia. La decapitazione del feroce generale assiro Oloferne ad opera di Giuditta e di una sua ancella. Ella si intrufola nel campo nemico per compiere il glorioso gesto. Strano particolare del quadro la presenza della seconda donna come compartecipe dell’atto. Nella scena biblica Giuditta compie il gesto da sola mentre l’ancella aspetta fuori, vedendosi consegnata la testa all’uscita. Quasi a voler ancor di più riscattare il ruolo eroico ed essenziale della figura della donna. Il quadro - di soggetto perfettamente analogo a quello della tela, un po' più piccola e dai diversi colori, eseguita in precedenza e conservata oggi nel Museo Capodimonte di Napoli.
Il resto della sua vita è segnato da continui spostamenti, dovuti alla fama crescente: Napoli, Londra: tutte le corti europee ambiscono ad incontrare la bellissima artista che ormai non viene considerata a livello inferiore di un uomo.
La sua vita termina nel 1652 a Napoli, dove, nonstante il successo riscosso in gioventù, muore sola e dimenticata da tutti.

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